Elio Turno Arthemalle all'Oasi

Alcuni brani , selezionati da Elio, della leggenda di Attenone (da Ovidio, Metamorfosi):
IL BAGNO DI DIANA
“C’era una valle fitta di pini e di aguzzi cipressi,
chiamata Gargafia, sacra a Diana dalle vesti succinte;
nel più remoto luogo, tra i boschi, c’era una grotta
non fatta dall’uomo: la natura, col suo talento,
aveva riprodotto la perfezione dell’arte; infatti, con viva pomice
e tufo leggero aveva creato un arco spontaneo;
risuona a destra una fonte, che l’onda gentile rende lucente,
cinta nell’ampia foce da bordi coperti d’erba.
Qui la dea dei boschi era solita, affaticata dalla caccia,
bagnare nell’acqua le giovani membra.
Giunta in quel luogo, affidò alla ninfa
che portava le armi il giavellotto, la faretra e gli archi allentati;
un’altra prende sulle braccia la veste deposta,
due le tolgono dai piedi i calzari; poi, più esperta di quelle,
Crocale, figlia di Ismeno, raccoglie in un nodo
i capelli sparsi sul collo, benché li tenesse sciolti lei stessa.
Nefele, Iale, Ranide, Psecade e Fiale attingono
e versano acqua con grosse anfore”.
ATTEONE DIVENTA CERVO
“Quando egli entrò nella grotta bagnata dalle acque sorgive,
alla sua vista le ninfe, nude com’erano, il petto
si batterono e il bosco intero di urla improvvise
riempirono, poi, circondata Diana,
la nascosero coi loro corpi, ma era più alta di loro
la dea stessa e le sovrastava tutte dal collo in su.
Il colore che prendono le nubi, colpite
dal sole in fronte, o l’aurora purpurea
apparve sul volto di Diana vista senz’abito.
E quella, per quanto stretta tra le tante compagne,
si volse sul fianco e indietro girò
il viso e, come se avesse avuto pronte le frecce,
prese l’acqua che aveva e con quella il volto dell’uomo
bagnò e, inondando i capelli con fiotti vendicatori,
aggiunse parole che predicevano futura sventura:
“Ora racconta pure d’avermi vista senz’abito,
se riuscirai”. E senza altre minacce,
dà al capo bagnato le corna di un giovane cervo,
allunga il collo, appuntisce la sommità delle orecchie,
trasforma le mani in piedi, le braccia in lunghe
zampe e ricopre il corpo di pelo striato;
anche paura aggiunge: fugge l’eroe figlio di Autonome
e, mentre corre, si meraviglia di essere così veloce”.
LA VENDETTA DI DIANA
“La muta, per brama di preda,
attraverso sassi, dirupi e inaccessibili rocce,
dove è difficile passare, dove non c’è nessuno, lo segue.
Quello fugge per i luoghi dove spesso inseguiva,
misero, fugge i suoi stessi aiutanti; voleva gridare:
“Sono Atteone, riconoscete il vostro padrone!”
Ma gli mancano le parole e l’aria risuona di latrati.
Le prime ferite le fa Melanchete sulla schiena,
altre Terodamante, Oresitrofo si attacca alla spalla.
Tutti gli altri si radunano e gli affondano nel corpo i denti.
Non c’è più spazio per le ferite. Geme quello e fa suoni
che, non più umani, tuttavia non sono nemmeno
di cervo; riempie di tristi lamenti le selve note,
e in ginocchio, supplice e simile a chi implora,
volge taciti sguardi, come tendesse le braccia.
Ma i compagni, con le esortazioni di sempre,
aizzano la muta rabbiosa e con gli occhi cercano Atteone
e, come se fosse assente, a gara lo chiamano
(quello volta il capo al suo nome); si lagnano che non sia lì,
che, pigro, non goda della vista della preda offerta.
Vorrebbe non esserci, quello, ma c’è; vorrebbe vedere
e non sentire gli atti feroci dei suoi cani.
Da ogni parte lo circondano e con i denti immersi nella carne,
sbranano il padrone mutato in cervo,
e solo dopo che a lui la vita mancò tra le molte ferite
si narra che l’ira di Diana cacciatrice fu saziata”.
Elio Turno Arthemalle all'Oasi

Alcuni brani , selezionati da Elio, della leggenda di Attenone (da Ovidio, Metamorfosi):
IL BAGNO DI DIANA
“C’era una valle fitta di pini e di aguzzi cipressi,
chiamata Gargafia, sacra a Diana dalle vesti succinte;
nel più remoto luogo, tra i boschi, c’era una grotta
non fatta dall’uomo: la natura, col suo talento,
aveva riprodotto la perfezione dell’arte; infatti, con viva pomice
e tufo leggero aveva creato un arco spontaneo;
risuona a destra una fonte, che l’onda gentile rende lucente,
cinta nell’ampia foce da bordi coperti d’erba.
Qui la dea dei boschi era solita, affaticata dalla caccia,
bagnare nell’acqua le giovani membra.
Giunta in quel luogo, affidò alla ninfa
che portava le armi il giavellotto, la faretra e gli archi allentati;
un’altra prende sulle braccia la veste deposta,
due le tolgono dai piedi i calzari; poi, più esperta di quelle,
Crocale, figlia di Ismeno, raccoglie in un nodo
i capelli sparsi sul collo, benché li tenesse sciolti lei stessa.
Nefele, Iale, Ranide, Psecade e Fiale attingono
e versano acqua con grosse anfore”.
ATTEONE DIVENTA CERVO
“Quando egli entrò nella grotta bagnata dalle acque sorgive,
alla sua vista le ninfe, nude com’erano, il petto
si batterono e il bosco intero di urla improvvise
riempirono, poi, circondata Diana,
la nascosero coi loro corpi, ma era più alta di loro
la dea stessa e le sovrastava tutte dal collo in su.
Il colore che prendono le nubi, colpite
dal sole in fronte, o l’aurora purpurea
apparve sul volto di Diana vista senz’abito.
E quella, per quanto stretta tra le tante compagne,
si volse sul fianco e indietro girò
il viso e, come se avesse avuto pronte le frecce,
prese l’acqua che aveva e con quella il volto dell’uomo
bagnò e, inondando i capelli con fiotti vendicatori,
aggiunse parole che predicevano futura sventura:
“Ora racconta pure d’avermi vista senz’abito,
se riuscirai”. E senza altre minacce,
dà al capo bagnato le corna di un giovane cervo,
allunga il collo, appuntisce la sommità delle orecchie,
trasforma le mani in piedi, le braccia in lunghe
zampe e ricopre il corpo di pelo striato;
anche paura aggiunge: fugge l’eroe figlio di Autonome
e, mentre corre, si meraviglia di essere così veloce”.
LA VENDETTA DI DIANA
“La muta, per brama di preda,
attraverso sassi, dirupi e inaccessibili rocce,
dove è difficile passare, dove non c’è nessuno, lo segue.
Quello fugge per i luoghi dove spesso inseguiva,
misero, fugge i suoi stessi aiutanti; voleva gridare:
“Sono Atteone, riconoscete il vostro padrone!”
Ma gli mancano le parole e l’aria risuona di latrati.
Le prime ferite le fa Melanchete sulla schiena,
altre Terodamante, Oresitrofo si attacca alla spalla.
Tutti gli altri si radunano e gli affondano nel corpo i denti.
Non c’è più spazio per le ferite. Geme quello e fa suoni
che, non più umani, tuttavia non sono nemmeno
di cervo; riempie di tristi lamenti le selve note,
e in ginocchio, supplice e simile a chi implora,
volge taciti sguardi, come tendesse le braccia.
Ma i compagni, con le esortazioni di sempre,
aizzano la muta rabbiosa e con gli occhi cercano Atteone
e, come se fosse assente, a gara lo chiamano
(quello volta il capo al suo nome); si lagnano che non sia lì,
che, pigro, non goda della vista della preda offerta.
Vorrebbe non esserci, quello, ma c’è; vorrebbe vedere
e non sentire gli atti feroci dei suoi cani.
Da ogni parte lo circondano e con i denti immersi nella carne,
sbranano il padrone mutato in cervo,
e solo dopo che a lui la vita mancò tra le molte ferite
si narra che l’ira di Diana cacciatrice fu saziata”.




